Nando Crippa / La metafisica della mitezza
Bollettino n. 197 con testo di Luigi Fassi
1 marzo – 9 aprile 2018.
La prima immagine della mostra è un vasto spazio industriale organizzato in tre file di sobri tavoli di color tortora sui cui piani sono assorte a cucire a macchina una ventina di operaie tessili, abbigliate nella divisa di un modesto grembiule azzurro pallido. La concentrazione, la solitudine e il silenzio evocati da Le cucitrici (2018) di Nando Crippa infondono il candore severo di una devozione laica a tutta la scena, che nella restituzione in modellini di creta di piccole dimensioni appare come una fotografia del lavoro femminile in un’industria tessile italiana negli anni del primo boom economico.
L’arte di Nando Crippa è possibile individuare un’eco continua di rimandi, associazioni ed evocazioni, come nella terracotta dedicata al giovane J. D. Salinger (Salinger, 2018), l’autore de Il giovane Holden, colto spensierato in un momento di gioventù. La forza del lavoro di Crippa risiede tuttavia nel suo valore simbolico, che pur nell’evidenza di alcuni elementi culturalmente identificabili che sempre ricompaiono nei suoi personaggi – la tipizzazione dell’abbigliamento femminile e maschile, il mondo del lavoro manifestato in ruoli operai e impiegatizi – sa astrarsi da riferimenti e da modelli chiusi e facilmente classificabili. La presenza delle sue sculture sa imporsi con la forza di figure che appaiono dei simboli di atteggiamenti emotivi e condizioni umane in cui potersi specchiare. Da anni Crippa è fedele a una tecnica artigianale, fatta di metodi, tempi e regole precisamente scandite. Le forme e le figure in creta si ripetono, donne e uomini, colti in uno stato di pausa e attesa, di concentrazione assorta e distrazione temporanea. È una semplicità di mezzi e forme che rivela una sensibilità teatrale, come se le opere fossero degli appunti di regia per un allestimento scenico, dei bozzetti volti a fissare l’atteggiamento dei personaggi di una rappresentazione sempre eguale.
Il corpus dei disegni che Crippa porta avanti da molti anni parallelamente alle sculture rafforza questa lettura, articolandosi come una serie di still fotografici, quasi delle cartoline di frammenti di ricordi, pensieri ed emozioni. Realizzati a matita e china con un segno fluido e veloce, i disegni ritraggono figure colte nel loro lavoro o in un momento di estemporanea meditazione.
Vediamo così una vespa e il suo proprietario fermi sul ciglio di una strada, camerieri al lavoro, bagnanti sulla spiaggia, atleti impegnati nelle loro performance. Gli elementi di sfondo sono sempre appena accennati e non forniscono che dati minimi: una parete, un prato, un cielo, un muretto, una colonna. Sono dettagli di una precisa sensibilità estetica, oggetti modesti e discreti che ritornano ricorsivamente nelle opere di Crippa sino a caratterizzarne l’identità, indizi di una loro possibile natura sovratemporale. A prevalere nella reiterazione delle figure dell’artista e dei suoi personaggi è un minimalismo mite, attraverso il quale Crippa sembra raffigurare il fremere di uno sguardo d’incanto sulle cose, sprigionando una forza sottilmente eversiva: l’intensità anonima della vita urbana, la gioia misteriosa di sentirsi uno tra i molti, liberi e soli.
Questa condizione di pre-realtà, di vita antecedente l’esistenza individuale, nella poetica di Vago ha un carattere non solo spirituale, ma anche esplicitamente religioso. L’opera ambientale da poco completata nella chiesa di San Giovanni in Laterano, a Milano in zona Città Studi, non è che l’ultimo di una lunga serie di interventi in edifici sacri iniziata nel 1982, ma è soprattutto la manifestazione più eloquente di quella sua «astrazione generosa e sconfinata […] portatrice di verità e speranza» di cui ha scritto nel 2011 Flavio Caroli.