Giovanna Dal Magro /
Milano anni 70 – Quando pensavamo di cambiare il mondo
Bollettino n. 198 con testo diAlberto Maria Prima
10 maggio – 8 giugno 2018
Giovanna Dal Magro, nata e residente a Milano, è fotografa professionista dal 1970. Formatasi attraverso lo studio e la sperimentazione della pittura, ha successivamente adottato il mezzo fotografico, affermandosi a livello internazionale, partecipando ad iniziative editoriali, collaborando con prestigiose riviste e svolgendo una qualificata attività artistica con esposizioni personali in Italia e all’estero.
Le fotografie scelte per questa mostra, curata insieme al catalogo da Alberto Maria Prina, stanno racchiuse in un decennio che ha visto esplodere le conseguenze del ’68, di cui ricorre ora il cinquantenario. Eventi memorabili, mitizzati da molti, detestati da altri, pervasi da speranze e illusioni, desideri di rivolta e di liberazione che si sono dipanati per tutti gli anni ’70 con anche qualche danno collaterale di cui ancora subiamo le conseguenze. I cortei, le manifestazioni politiche, i festival dell’Unità, tanto per dare l’idea di un clima, dell’aria che si respirava. La stagione artistica che si inaugura dando espressione ad alcune istanze della controcultura degli anni Settanta. I ritratti, se così possiamo chiamare i personaggi (fra questi Marina Abramovic, Urs Luthi, John Cage, Andy Wharol, Franco Vaccari, gli Inti Illimani, Gillo Dorfles, poi Dario Fo, Victoria Chaplin, Judith Malina e Julian Beck) ripresi durante il loro fare nello studio o in luoghi pubblici, consapevoli o meno di essere ripresi. O sorpresi perché la fotografia non è uno specchio fedele, allude al reale, lo interpreta e ne crea uno parallelo, conservabile in digitale o su carta.
Il ritratto preparato e la documentazione della performance in studio, che devono il successo alla capacità di Giovanna di mettere a suo agio la persona, interpretarla nelle sue sensibilità, pulsioni, desideri autoreferenziali e di volta in volta realizzare quell’empatia che permette al soggetto fotografato non solo di dare ciò che vuole dare ma di “scoprirsi” e lasciare spazio al fotografo di infilarsi nella sua personalità.
La mostra, così come è allestita, ci offre la cifra di un film, uno story board da visionare come in moviola, di un periodo storico rilevante per le inquietudini che lo hanno attraversato e le conseguenze che ne sono derivate nella cultura collettiva e nella società. Una sequenza di immagini, documenti originali, stampe quindi “d’epoca” che sono al tempo stesso documento e opere autonome come è ormai diritto acquisito dell’arte fotografica.
«Generate da azioni precise e cadenzate per certi versi analoghe a quelle proprie dei riti, le opere di Sonia Costantini – scrive Borghi – possono apparire così percettivamente dense da risultare impenetrabili, se non dopo un preciso esercizio dello sguardo: come se il colore avesse raggiunto una profondità davvero ardua da misurare, una soglia così remota da collocarsi nella dimensione del sogno. La sensazione più intensa, ma anche più disorientante, che si può provare di fronte a esse è che rimandino a un altrove, a un orizzonte che, pur non essendo necessariamente metafisico, trascende il quadro».